La prima cosa che colpisce del lavoro del fotografo Ceco Jan Saudek è che le persone nelle sue Fotografie di nudi sono gente comune, persone della porta accanto, e non supertop da copertina. La seconda che molte delle sue immagini sono divertenti: ricordo ancora il pomeriggio della fine deglia anni 90 in cui, in una libreria in centro, con un amica e un'avventore causale, girammo assieme le pagine di uno dei suoi primi libri sbellicandoci dalle risate.
Le sue immagini esplorano più i sogni che la realtà, sebben fortemente caratterizzate dalla sanguigna personalità sempre espressa dalla persona ritratta, e dall'uso della colorazione manuale dell'immagine che produce per se un effetto onirico e non realistico, anche se, ad onor del vero, la scelta di Jan fu dettata dalla accidentale difficoltà di reperire pellicole e sviluppi a colori. Le sue immagini sono contemporaneamente un pugno nello stomaco ed un gioioso inno alla vita, sprizzano forza da tutti i pori, a volte in modo divertente, a volte pateitco, o altre volte un pelo volgare... proprio come la vita vera.
Da un paio di anni Jan Saudek si è dotato di un grandioso sito internet con quasi 400 sue immagini online, ed anche alcune della sua modella/musa/moglie Sarah. Obbligatoria la vista, senza fretta, e la riflessione: sulla vita in genere e sul modo tutto particolare di Jan e Sarah di comunicarla.
Sàra incinta
2 Big 4 U 1981
Rainbow
Espada 1996
Parabellum
Sonho alusivo 1976
Untitled 1987
Luisa 1987
Phorographer as Jesus 1991
TV Lovers 1991
A conquista do Paraíso 1995
Shy Congratulators 1996
Pieta 1997
Vendedor de carne branca 1997
Rapariga checa cantando 1990
Ida 1990
Untitled 2003
La tecnica di Jan Saudek
Jan Saudek è uno di questi, egli è considerato uno dei principali artisti cecoslovacchi contemporanei, è un grande fotografo, un eccellente pittore e fine calligrafo. Nato nel '35 è sopravvissuto alla deportazione nazista mangiando erba e dentifricio. Durante gli anni del regime Saudek, che ancora non era conosciuto come artista, lavorava in fabbrica (e lo ha fatto per 32 anni) ma durante il tempo libero coltivava la sua passione per l'arte e la fotografia nell'umida cantina di casa sua.
In questo modo la sua personalità artistica diventa sempre più forte e sempre più definita. Le sue immagini parlano di maternità, di esibizionismo, di feticismo ma anche di parodia del corpo umano, con uno stile assolutamente unico e inimitabile.
Le modelle sono, in genere, sue amiche o conoscenti, come la sua bella compagna e altrettanto valida artista Sára Saudková, che fotografa spesso insieme alla sua amica Olga. Nelle foto di Saudek appare un unico uomo: egli stesso. Dice che non lo fa per narcisismo ma per semplificarsi la vita perchè gli uomini quando devono posare nudi sono sempre impacciati e imbarazzati così fotografa se stesso e risolve il problema.
Non sempre è soddisfatto delle proprie opere ma ammette che se vedesse le sue foto fatte da qualcun altro morirebbe di invidia. Dichiara in un intervista rilasciata in occasione della pubblicazione di un suo libro: "Se una fotografia non racconta una storia non è una fotografia. Forse è la storia di tutti i nostri pensieri, quelli che diventano pubblici e sfidano i luoghi comuni e quelli che per pudore restano confinati".
Le sue foto, in origine erano in bianco e nero o virate seppia, poi decise di sottoporre alcuni amici ad un test: mostrò loro tre versioni di una stessa foto, una in bianco e nero, una virata seppia ed una colorata a mano, tutti scelsero quest'ultima, così prese la decisione di colorare manualmente i suoi scatti in bianco e nero con colori trasparenti ad acqua dando vita a capolavori di straordinaria bellezza.
Le riprese, durante i suoi primi anni di carriera artistica, venivano effettuate in una cantina, usando come sfondo un muro scrostato dall'umidità che era perfetto per sfumature e tonalità di grigio che restituiva alle foto. Ora può permettersi diversi appartamenti anche lussuosi ma in tutti ha riprodotto quello stesso muro che ha usato tante volte in gioventù.
Un articolo del New York Times fa notare che "dall'anno scorso i militari hanno applicato un nuovo regolamento che prevede di ottenere l'autorizzazione dai soldati feriti prima che le Fotografie di guerra possano essere pubblicate". Bisogna ammettere che un modo piuttosto ingegnoso per evitare che il pubblico possa vedere le conseguenze della disastrosa guerra in Iraq di George W. Bush ...
...(che, non dimentichiamolo, è anche la guerra di quei Senatori che a suo tempo diedero a Bush l'autorizzazione per essa, e di quelli che hanno appena allungato a Bush altri soldi senza condizione). Così adesso siamo nell'assurda situazione in cui la gente non può far nulla per la guerra (perchè qualsiasi cosa che non sia lasciar fare al Presidente tutto quello che vuole "non sarebbe di supporto alle truppe"), e i cittadini non possono neppure vedere cosa sta succedendo (perchè anche fare Fotografie "non sarebbe di supporto alle truppe"). (via Conscientious)
Il tradimento dei democratici che hanno staccato un nuovo assegno in bianco alla guerra di George W. Bush è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E Cindy Sheehan, la madre di Casey - ucciso a 24 anni a Bagdad nel 2004 - diventata il simbolo del 'no' alla guerra, ha mollato: esausta, delusa e arrabbiata ha annunciato la sua intenzione di lasciare il movimento per la pace. E, in una lettera pubblicata da un sito liberal proprio nel Memorial Day, afferma: "Ho cercato per tutti questi anni di dare un senso al sacrificio di mio figlio ma ora sono giunta alla più devastante delle conclusioni: Casey è veramente morto per niente". "Casey è morto per un paese al quale interessa di più sapere chi sarà il vincitore del nuovo reality, piuttosto che quante persone perderanno la vita in Iraq nei prossimi mesi, mentre democratici e repubblicani giocano alla politica con le vite umane". (via Repubblica.it)
A quasi quarant'anni dai "Manicomi" di Gianni Bernego Gardin e Carla Cerati, non innova ma continua ad emozionare il reportage sociale di Francesco Cocco, anche lui della scuderia Contrasto, in mostra da ieri fino al 30 marzo alla Sala Santa Rita di Roma. Gianni Berengo Gardin stesso, nell'introduzione della ristampa del suo storico lavoro, sostiene che: "Spesso non è necessario mostrare foto agghiaccianti per raggiungere un obiettivo. A volte può essere più efficace una fotografia più, come dire, coinvolgente dal punto di vista umano. Che stabilisca un rapporto emotivo e di solidarietà tra il soggetto fotografato e chi guarda la fotografia. Un atteggiamento, uno sguardo un'espressione. Altrettanto importante è non inflazionare i mezzi di comunicazione con Fotografie di violenza poiché, come è già stato detto e scritto, la gente non reagisce più e si verifica una sorta di assuefazione" (leggi l'intervista su informatissimifotografia.it).
E le immagini di Cocco sono ottima prova di quanto sono vere queste parole.
ROMA - Istantanee scattate nelle celle e nei corridoi delle carceri italiane. Un viaggio insolito, per ritrarre quello che comunemente rimane nascosto: l'esistenza quotidiana dei detenuti. Uomini e donne che si sono fatti ritrarre dal fotografo Francesco Cocco e che parlano, attraverso questi scatti.
Le immagini, raccolte nella mostra "Prisons" promossa dal Comune di Roma in collaborazione con "Contrasto", sono visibili a Roma alla sala Santa Rita fino alla fine di marzo.
[...]
Sono immagini scarne, a tratti dolorose e impietose, che non cercano abbellimenti. Le Fotografie, in bianco e nero, sono state realizzate tra il 2001 e il 2005 nelle carceri di Milano, Modena, Palermo, Bologna, Trani, Roma, Messina, Prato, Torino, Cagliari, Alghero, Pisa e sono state raccolte nell'omonimo volume "Prisons" pubblicato in Italia da Logos nel 2006, con testi di Adriano Sofri e Renata Ferri.
Scatti che testimoniano un mondo a parte, di cui conosciamo l'esistenza ma che non vediamo, e di cui raramente ci occupiamo.
E' uno specchio duro e oscuro, ma vale la pena di affrontarlo. Anche perché in queste immagini c'è, come nella migliore fotografia, tanto racconto. "Alla fine del libro – scrive Renata Ferri – vorremmo saperne di più, vorremmo conoscere ogni storia dietro ogni volto, vorremmo sognare un lieto fine per ognuno di loro". Come nelle favole.
Una fotografia di Roger Ballen non è qualcosa che si guarda e si dimentica in fretta: possiede contemporaneamente una intensa bellezza formale ed una forza espressiva non comune, che affascina e colpisce diritto allo stomaco. La recente intervista commissionata da American PHOTO a Jörg Colberg, pubblicata anche sul suo blog Conscientious, mi ha riportato alla mente il mio personale e folgorante incontro con l’immaginifico mondo visuale di Roger Ballen, con Outland, esposizione alla GAM di Bologna del 2002.
Nato a New York nel 1950, Roger Ballen studia geologia all’università di Berkley e si laurea in Economia Mineraria presso l’università del Colorado. Dopo la laurea si stabilisce in Sud Africa dal 1984, dove lavora per una compagnia mineraria. Da questa esperienza professionale il primo importante progetto artistico, Chambers, che porta la documentary photography direttamente verso l’arte.
PHOTO ROGER BALLEN
La forza espressiva delle sue immagini è spesso introdotta dallo sguardo fermo e diretto dei suoi soggetti, che ci guardano, ci colpiscono, ci straniscono. Ballen ha preferito vedere il Sud Africa dal punto di vista della gente bianca povera che vive hai margini della società, in ambienti squallidi, sporchi e fatiscenti ma con la volontà di rendere a volte gioiosa una situazione disperata attraverso una sorta di humour e riuscendo perfettamente ad interagire ed ad entrare in empatia con i suoi soggetti, creando un punto di contatto tra il loro mondo e il suo inconscio. A livello formale, invece, nella sua opera esiste un’organicità, un equilibrio dove le singole parti interagiscono tra loro, ottenendo, così, immagini pulite, formalmente e visivamente chiare e semplici. Il filo conduttore delle opere di Ballen sta proprio qui, nella dicotomia tra la pura forma e il suo interno, saturo di difetti, fatto di gente con caratteristiche inusuali, deformi, persone logorate dal tempo e dal degrado, mostri che vivono in ambienti miseri, sterili, infelici e abbandonati. La sua opera si allontana dall’ipotesi di una semplice denuncia sociale e va ben oltre l’intento documentaristico: ogni immagine è introspezione, in grado di rivelare la natura più intima dell’artista; quel che emerge dalle sue Fotografie sono "autoritratti".
"5 minutes in my shoes - Piccole storie di rifugiati" è una mostra di Elena Marioni composta da 60 Fotografie in bianco e nero, suddivise in sezioni che documentano l'arrivo dei richiedenti asilo in Italia e le loro prime attività. Il Comune di Bologna ospita l'esposizione, allestita nel cortine di Palazzo d'Accursio, nell'ambito del fuori programma del Festival Human Rights Nights organizzato dalla Cineteca di Bologna. La mostra è visitabile dal 14 aprile al 1° maggio, tutti i giorni dalle 8 alle 19. Le immagini di Elena Marioni sono un reportage realizzato in diretto stile fotogiornalistico. Il suo bianco e nero, però, risulta davvero efficace solo a tratti, mentre in alcune sezioni le immagini sono prive della forza necessaria a comunicare il lato emotivo dell'essere un rifugiato appena sbarcato in un paese straniero. Come spesso accade nei progetti con una forte necessità educational, l'editing della mostra ha privilegiato l'aspetto documentativo sopra quello espressivo o artistico della selezione.
Vale comunque la pena dare un'occhiata alla mostra, malgrado l'illuminazione decisamente imperfetta dovuta alla luce naturale del cortile di Palazzo d'Accursio che mal si distribuisce fra le pannellature. In particolare sono da notare alcune immagini con i gesti della identificazione dopo lo sbarco, e alcuni particolari delle stanze dei rifugiati.
Se si fossero eliminate dalla selezione per la mostra circa 20/25 immagini si sarebbe forse perso parte del valore documentativo, ma si sarebbe guadagnato enormemente in impatto emotivo dell'esposizione, ed in espressività. Dal mio punto di vista è un piccolo peccato.
Esattamente 8 anni fa scrivevo una pagina del mio personale diario proprio su ArteFiera, e la "pubblicavo" su un proto-blog realizzato tramite una mailing-list di amici, artisti e creativi che ruotavano attorno ad un sito open e ai "suoi" progetti...
DAVIDE GAZZOTTI - Pavimentazione affollata a tratti ad ArteFiera 2007
...e, non inaspettatamente, molte delle considerazioni fatte allora si possono traslare in quello che è successo in questi anni all'arte, alle fiera, ad ArteFiera, ed al sottoscritto Differenze da allora? Beh, innanzitutto la scomparsa definitiva delle gallerie innovative che noleggiavano gli spazi espositivi nel sovrariscaldato piano superiore perchè più economici, poi la drastica riduzione di arte moderna (fino alla pop inclusa), per dare spazio a più realizzazioni contemporanee. Non che con questo la qualità delle emozioni provabili barcollando per un tale mercatino ne guadagni, anzi... non è che forse sto invecchiando io?
Uno dei momenti più elevati e creativi l'ho vissuto durante la illuminata performance estemporanea di Lilia e Paolo, che ha attirato l'attenzione di svariati visitatori ed ha segnato un notevole aumento di presenze allo stand utilizzato come scenario:
Paolo e Lilia - Una di queste opere ritratte ad ArteFiera 2007 è un falso. Quale?
Infine, per memoria storica, riporto lo scritto a cui mi riferivo in principio, recuperato in qualche dimenticato meandro del mio archivio elettronico. See you later, d.
----- Original Message ----- From: Gazzotti Davide Sent: Monday, February 01, 1999 3:08 PM Subject: [aciderror] Diario a caldo di un profano nella tana dei mercanti dell'arte
ArteFiera99: potrei enumerare i nuovi spazi espositivi, oppure decantare statistiche di visitatori e numero d'opere esposte in costante crescita, ma questo compito è svolto egregiamente dagli organi d'informazione ufficiale. Invece quello che voglio raccontare è l'improbo tormento di voler provare il brivido di una sensazione nella tana dei mercanti dell'arte. Unica notevole novità è lo spazio per le installazioni artistiche di grandi dimensioni, in cui, fra i vari Argan e i neoclassici dozzinali, fa bella mostra di sè lo stand promozionale di una premiata fonderia bolognese. La sempre presente mostra fotografica è quest'anno sponsorizzata da una nota casa di lingerie: la galleria sensoriale, che ospita immagini di Parisotto Vay, mi ha regalato il primo sospirato brivido. Sarà stato merito dell'impressionante impianto luci o della mistica musica di sottofondo, ma le già ben note curve, dinamiche e al tempo stesso statuarie, immortalate da Parisotto evocano la componente più classica e onirica dell'universo femminile restituendo ugualmente sipido dinamismo e modernità che sempre urgono nella vita dell'uomo contemporaneo. Ma se non siete riusciti a visitarla entro il lunedì sera di chiusura dei battenti, potete comunque ammirare molto di questo materiale fra i "-50%" della prossima fiera del libro. Il padiglione dei galleristi più classici, soffocandomi con un clima antitetico a quello stagionale, fuga qualsiasi altro tentativo di involontario irrigidimento cutaneo. Un affollamento senza precedenti, nella mia breve carriera di profano di arte ad una fiera, in cui risalta più la pasta di cui è fatta la gente presente che la poeticità e talvolta modernità delle molte opere spesso mal assortite ad ammassate negli spazi espositivi. Rari, in questa zona, gli studenti e i veri amanti dell'arte; diffusi, invece, i collezionisti fighetti ed i mercanti in genere. Potrei ricordare che questo non è più l'anno boom di Galliani, ma quello di Valentini (con cui i due terzi dei galleristi millantano esclusiva collaborazione). Oppure potrei notare l'imponente apparato propagandistico dedicato al presunto ritrovamento di alcune vecchie matrici di cinque litografie di un anziano artista lusitano. Oppure, ancora, potrei elencare la quantità di "classici" invenduti (De Chirico, Sassu, Mirò...) che molti galleristi non hanno avuto neppure l'accortezza di montare in posizione diversa da quella che occupavano nell'edizione dell'anno passato. A questo punto le vampate di aria viziata e le bombe sensoriali a cui i miei occhi curiosi sottopongono le già stanche meningi mi costringono ad un disordinato barcollare da uno stand all'altro alla ricerca disperata di quel tanto sospirato brivido che, in fondo, è il sale della vita. Salgo le lunghe scale mobili nella speranza che il padiglione dei moderni, degli innovatori, mi riservi qualche sorpresa. Non resto deluso, malgrado l'apparente eccessiva ricerca di impatto visivo a tutti i costi, spesso a scapito della poesia, che pervade le produzioni artistiche più recenti. L'unica frustrazione qui mi è riservata dallo stand che espone foto e statuette di pessimo gusto, ma con sfondo sessuale, che, grazie a ciò, riceve un immeritato climax di visitatori, evidentemente molti più profani di me. Ammiro i purtroppo scadenti Wharol di un gallerista fiammingo, fuggo nauseato dai diffusi scempi altrui del Donzelli, rivedo volentieri le belle Fotografie istoriate di un autore arabo il cui nome, ovviamente, mi sfugge, rimango incantato di fronte ai poetici volti e alle mani rappresentate da una giovane artista padana, e trattengo un conato davanti all'esteticamente irrilevante quadro che documenta il parto di un ermafrodita... Prima di uscire mi tolgo una curiosità: domando il prezzo di un dolcissimo angelo di Omar Galliani, in realtà già marchiato con il bollino di "venduto", in modo da evitare la potenziale insistenza del venditore. Più di 8 delle mie mensilità nette! Meno male, tanto la vera arte è bello fruirla e non possederla. Quando la compri a così caro prezzo la stai violentando, la stai rinchiudendo in una prigione, dietro sbarre che ne tarpano le ali: non può più volare in alto nel cielo, non può più regalare a nessun altro che a te il brivido che egoisticamente stavi cercando. Di ritorno verso l'automobile mi chiedo cosa voleva comunicare quell'artista che ha incollato una serie mainboard di vecchi PC ad una tavola e poi ci ha colato un po' di plastica nera sopra... Lascio perdere, giro la chiave e pago il parcheggio quasi soddisfatto della mia domenica pomeriggio, ma con un unico groppo in gola: peccato che i mercanti dell'arte mi abbiano costretto all'esborso di 20mila di ingresso e 6milae5 di parcheggio, prezzo invero in linea con altre esposizioni commerciali. Per una fiera così mercantile, per farmi visitare il mercato delle pulci dei grandi artisti, potevano però essere più generosi, soprattutto immergendomi nei panni dello studente universitario interessato all'arte e alle nuove tendenze, ma, evidentemente, questa fiera non è a lui dedicata. Davide mailto:davide@davidegazzotti.com acid your life: http://www.acidlife.com/ ------------------------------------------------------------------------
[Visitata 1 settimana fa alla Fiera di Bologna con Lilia e Paolino]
Per alcuni giorni hanno girato e fatto discutere i blog di mezzo mondo, ma sono un falso le tre Fotografie mal ritoccate che sembravano suggerire un avvenuto ritorno di Oliviero Toscani e delle sue demagogiche campagne pseudosociali nelle pubblicità dei maglioni della Benetton. Direttamente sul blog 10ads.com la sintetica smentita dell'ufficio stampa di Benetton: "Ciao a tutti, questa NON è una campagna Benetton...". Attenzione a queli egotisti dei bloggers
McCann Erickson has done an excellent job in the world Benetton brand. Now Benetton is trying to initiate some actions regarding the home violence against women.
The brand is brave enough to try with a negative view their same slogan - United Colors of Benetton (combined color Benetton), and make it a more cruel Colors of Domestic Violence (the color of domestic violence). Agency: McCann Erickson
Updated:Federico Sartor May 30th, 2007 at 2:18 pm
Dear All, this is NOT a United Colors of Benetton advertising campaign. Please don’t be deceived, see the official Benetton Group website www.benettongroup.com
Best regards, Federico Sartor
Direttore Stampa e Comunicazione Istituzionale Benetton Group Tel. 39 0422 519036 Fax 39 0422 519930
I have not received any denial email from anyone at Benetton Group. Therefore ads will remain on this blog until the denial email from the company.
Pochi anni fa non esistevano o quasi agenzie fotografiche Royality Free. Ora dicono siano la maggior parte del mercato della fotografia "stock", ovvero da archivi dove trovare generiche immagini per editoriali, piccole borchure, siti web, etc., anche se, onor del vero, cifre certe è difficile elaborarne.
Tutto è nato anche perchè il prezzo delle immagini d'archivio, già reperibili on-line sui siti di tradizionali agenzie ad alta qualità, era davvero troppo elevato, quindi riservato ad impegnativi progetti di immagine coordinata e fuori dalla portata di micro imprese, progetti più piccoli (sono la maggioranza) o studenti di (web) publishing. I siti di Microstock photography sono la risposta a questi bisgoni: si affidano principalmente a fotoamatori che inviano e catalogano le loro immagini sul sito, ed offrono Fotografie ad alta risoluzione addirittura a partire da 1 dollaro, normalmente dai 2 ai 10 dollari, e in più sono Royality Free, ovvero senza ulteriori Royalties da pagare a prescindere dal numero o dalla tipologia di utilizzi, commerciali e non, da parte dell'acquirente. Sono la risposta massificata alla richiesta generalizzata di enormi quantità di immagini sempre "nuove" con cui bombardare le masse.
L'avere come fonte di contenuti hobbysti desiderosi di sprecare tempo per incassi nel 99,9% dei casi marginali, e la meccanicità dei criteri di accetazione delle immagini, fa si che l'enorme mole di materiale catalogato su di un sito Microstock necessiti di una più accurata selezione da parte del committente per trovare l'immagine comunicativamente giusta e con qualità (non solo tecnica) giusta per il progetto in corso. L'enorme quantità di hobbysti, con a disposizione una fotocamera digitale ed una copia di Photoshop, desiderosi di esposizione, riconoscimento morale e condividisione dei risultati, ha fatto sì che le Microstock agencies strutturassero il proprio sito più come un social networkche come il sito di un'agenzia fotografica on-line. Questa è stata la mossa vincente dei pochi nomi che ormai sono accapparrati il mercato.
La struttura di prezzo rivoluzionaria, inoltre, è riuscita a stravolgere questa nicchia di mercato nel giro di un paio d'anni: queste Microstock agencies stanno causando seria preoccupazione alle agenzie di stock photography tradizionali, e stanno già influenzando le loro strategie di mercato, dice questo articolo sul New York Times.
Dal punto di vista del diritto, Royality Freenulla c'entra con il Copyright o il Copyleft, o la sempre più diffusa licenza Creative Commons: il diritto di ripoduzione originario resta di proprietà teorica all'autore, e solo in alcuni casi può essere trasferito in esclusiva alla agenzia on-line, ma viene concesso in modo illimitato a chiunque acquisti a queste ridicole cifre le immagini.
Per provare personalmente questi servizi, anch'io mesi fa misi in vendita, sotto pesudonimo, qualche dozzina di scatti realizzati per caso, o qualche scarto da progetti di cui possiedo tutti i diritti, oppure ancora immagini che non avevano qualità sufficiente per essere accettate nei siti delle agenzie "macrostock". Da parte mia confermo i risultati economici insoddisfacenti, d'altra parte ad 1 o 2$ per immagine, per di più disperse in banche dati con uno o più milioni di foto tutte ugualmente mediocri, è difficile emergere e fare i grandi numeri necessari a giustificare il tempo impiegato per l'upload e la catalogazione delle immagini sul portale di stock photo. Chi ci è riuscito sono in pochi, i pochi pionieri un paio di anni fai di questo nuovo mercato fotografico, che avevano il tempo di inviare e catalogare centinaia immagini un pelo sopra la media in banche date da poche decine o centinaia di miliaia di foto, e che ora, per via dei meccanismi di misurazione di popolarità tipici delle social network si trovano un'esposizione molto maggiore del tipico nuovo arrivato.
La novità che ho scoperto oggi verificando il log delle vendite dell'ultima settimana è che anche i grandi nomi del marketing e dell'immagine coordinata hanno qaulcuno al loro interno che, magari per piccoli progetti o per comunicazione interna, evita i costosi siti ad alta qualità d'immagine di Alamy, Corbis e Getty, e si occupa di scaricare praticamente gratis dai vari Shutterstock o Fotolia, al solo maggior costo del maggior tempo necessario al tipicamente sottopagato addetto incaricato della selezione per trovare le immagini giuste e di ottima qualità. Nomi dal log delle mie vendite di questa settimana? Ecco: JWT, R&R Partners,......!!!!
Bene, questa è la conferma della morte ufficiale della Stock Photography come business.
Più in generale, dopo l'affermazione dell'Open Source nella produzione del software e del Peer2Peer nella distribuzione audiovisiva, è la morte nel mondo digitale del modello di business basato sul prodotto (o sul detenere esclusiva un brevetto o un'opera creativa). Stiamo irreversibilmente diventando una società di servizi, alcuni condivisi, altri a pagamento, e il modello di business produttivo tradizionale rimarrà unicamente per i prodotti tangibili, di cui è reso necessario (o di cui è reso necesario) il possesso. La conoscenza, unico vero asset nel nuovo mondo digitale, essendo anch'essa condivisa, non da diritto a nessuna remunerazione. Speriam solo che restino in piedi abbastanza business tradizionali per permettera a noi servitori nella società dei servizi di pagar tutte le bollette a fine mese
Ormai ha quasi quarant'anni la bella Sarah Saudek (o, come si dice, Sarah Saudkova). Nata nel 1967 in Repubblica Ceca, si è laureata all'Università di Economia di Praga. Ha prima condotto un programma TV e ne ha fatto da autrice, per poi diventare partner, modella e manager di Jan Saudek.
Jan e Sarah Jan Saudek (classe 1935) è indubbiamente il primo grande fotografo moderno della Repubblica Ceca, ed è famoso per i suoi crudi nudi che focalizzano, con tecnica ruvida, un erotismo grottesco e intrigante, sia nella forma che nel contenuto. Wikipedia ci suggerisce di non confonderlo con il quasi omonimo Josef Sudek (1896-1976), che, francamente, non sapevo neanche chi fosse. Sarah invece oggi è descritta su www.saudek.com che Jan e Sarah condividono, come "il braccio destro" del fotografo Jan Saudek. Col lavoro di assistente, Jan Saudek la ha introdotta alla fotografia: "Il maestro Jan mi ha insegnato l'artigianato della fotografia, perchè non c'è scuola migliore...". Sarah Saudek ha cominciato a realizzare le prime Fotografie tutte sue nello studio di Jan nei tardi anni 90 (i primi lavori pubblicati sono datati 1998), ed ha successivamente dimostrato una certa abilità a sviluppare uno stile proprio, pur nell'esplorazione di territori simili a quelli del proprio mentore. C'è femminilità e una qualche tenerezza nel suo lavoro. Dopo un paio d'anni che fotografava, Jan affermò addirittura che le immagini di Sarah erano superiori alle sue. Potenza dell'amore? Può darsi. Di certo la raffinata ruvidità della visione e della tecnica del Maestro, qui addolcita, lascia posto ad una imperfezione tecnica meno piacevole.
The Kiss Forse il più forte dei suoi lavori giovanili è 'The Kiss', 1999, che dimostra un deciso approccio grafico al soggetto, riprendendolo dal basso: una vista d'effetto di un semplice atto. Altra immagine significativa è 'The Tenderness' (2000), un'altra coppia, questa volta nudi, in ginocchio, ma ripresi dall'alto.
The Kiss, 1999 - PHOTO SARAH SAUDEK
The Tenderness, 2000 - PHOTO SARAH SAUDEK
L'intimità Ci sono immagini di Sarah che potebbero offendere qualcuno per via della presenza del nudo o anche di atti sessuali espliciti, ma di certo non si tratta di nulla di pornografico o di bassamente stimolante, anzi, piuttosto, l'immaginario di Sarah Saudeck tende a rappresentare il lato più divertente e commovente della sensualità. C'è una profonda intimità in molto del suo lavoro, un senso di essere parte di una famiglia che si ama, come in 'Holy Virgin', 2003, in cui Sarah impersona la Madonna, 'The 1st Step' e 'Vis & Vis'. In molte di queste immagini viene celebrata la vita.
Holy Virgin, 2003 - PHOTO SARAH SAUDEK
Vis a vis, 2003 - PHOTO SARAH SAUDEK
Il centro del mondo Il celebre quadro di Gustave Courbet 'L'Origine del Mondo', (che si trova al Musee d'Orsay di Parigi) all'epoca della realizzazione (1866) turbava gli osservatori semplicemente mostrando un torso di donna a gambe aperte. 'The Middle of the World' della Saudek, 2001, riprende da un punto di vista simile il pancione di una donna incinta, ma gioca sull'idea del mondo mostrando la pancia sotto forma di enorme globo. Difficilmente ci sarà qualcuno che si turba per queste cose oggigiorno, piuttosto c'è da farsi una simpatica risata.
The Middle of the World, 2001 - PHOTO SARAH SAUDEK
The Priest Finita la scorpacciata maternalista decisamente autobiografica, le immagini della Saudek sono tornate a percorrere il terreno dell'irriverente denuncia della componente carnale dell'uomo. E non potreva mancare un'immagine sicuramente controversa come quella del prete omosessuale.
The Priest, 2005 - PHOTO SARAH SAUDEK
Per finire La fotografia di Sarah risulta decisamente influenzata da quella di Jan Saudek, peccato manchi di quella forza espressiva e quella ricercata ruvidità tecnica che hanno reso famoso l'immaginario erotico del suo grande mentore. Manca quella sofferenza che trasuda da ogni poro della pelle del grande Jan Saudek. Malgrado l'indubbia bravura, nella storia della fotografia la bella Sarah è stata per ora forse più importante come musa e come editordi Jan, che come fotografa; malgrado ciò è davvero piacevole una sosta ragionata almeno al sito internet.
Le Fotografie del giovane bolognese Lorenzo Pondrelli, premiato vincitore nella categoria Fotografia di Reportage del Festival ICEBERG 2007, mostrano le bellezze dell'India e delle sue culture usando un linguaggio espressivo che va oltre il consueto stile documentaristico "alla National Geographic". Il filo conduttore è l’unione dei tre vincoli formali tempo, spazio e tono, il raccogliere momenti in cui lo spazio e il tempo sembrano unirsi al colore per mostrare la bellezza della realtà. Così la duplicità delle immagini, che rappresentano soggetti catturati nello stesso momento o lo stesso soggetto visto da differenti punti di ripresa, cerca di ricreare sensazioni che condividevano lo stesso spazio: ogni opera infatti è composta da due Fotografie unite da un inevitabile legame formale di spazi, momenti e toni.
Magenta - PHOTO LORENZO PONDRELLI
Davvero indovinato e ben realizzato, il comunicativo progetto di Lorenzo Pondrelli merita il primo premio ricevuto, e le prospettive future che, con esso, sicuramente si aprono per il suo giovane autore. Da sole le sette opere presentate al concorso per questo progetto (ognuna composta di due Fotografie impaginate graficamente con il tono di riferimento) valgono la visita alla galleria Tamatetedi Via Santo Stefano 17 a Bologna, ma pregievoli sono anche alcune altre opere fotografiche e materiche in concorso al festival iceberg 2007 e presentate in questi spazi di FMR/Arté.
Lorenzo Pondrelli alla galleria Tamatete per il Festival Iceberg 2007 - PHOTO DAVIDE GAZZOTTI
Segue un'estratto di un minuto dall'intervista che ho realizzato.
Rimanendo nell'ambito della Fotografia di Reportage presentata nello stesso spazio espositivo, di stile diverso è il reportage "Nova Craiova" di Filippo Massellani realizzato fra i container di un accampamento di rom immigrati a Bologna, e segnalato dalla giuria. Un classico reportage sociale, ben realizzato con un'ottimo bianco e nero, a cui non mancano le necessarie immagini di forte impatto, e pregievole coerenza formale.
PHOTO FILIPPO MASSELLINI
Potenzialmente promettente, ma di realizzazione formalmente tutt'altro che ineccepibile, il progetto "Presenze" di Gemis Luciani, ultimo autore segnalato nella sezione Fotografia di Reportage. Tema più difficile e abusato, a cui è fatalmente mancato, soprattutto nella quarta immagine della serie, il necessario impatto visivo e coerenza formale con le altre immagini.
Spiando l’intimità delle persone, questo libro documenta il brusio e le vibrazioni di una delle più ammirate città del mondo. Le persone ritratte in questa galleria non sono frammenti dell’immaginazione dell’autore, ma sono gente reale: nella città che pulsa non esistono eroi ed eroine, ma solo uomini e donne alle prese con la loro vita, e con la necessità di superare limiti e difficoltà.
Spingendo la fotografia documentaristica oltre i suoi confini, queste strade claustrofobiche raccontano il respiro della vita nella scomoda era della Grande Recessione del 2009, dove l’ansia e l’incertezza incombono su una versione decadente del Sogno Americano. I personaggi calcano frenetici il più seducente palcoscenico mai realizzato, cullati dai fianchi slanciati e inarrivabili di New York.
Salvo pentimenti dell’ultimo minuto, il rogo sarà appiccato domani, lunedì 11 gennaio 2009, in una qualche piazza di Chalon-sur-Saone, in Borgogna. Il fotografo francese Jean-Baptiste Avril-Bodenheimer ha infatti annunciato che brucerà volontariamente e clamorosamente tutti i negativi originali (17 rullini da 36 immagini ciascuno) prodotti nel corso di un suo laborioso progetto di documentazione sulle architetture moderniste di Tel-Aviv. Si tratta, è chiaro, di un gesto di protesta estrema: contro il mercato della fotografia. Lavoro di un anno intero, concluso con una mostra offerta gratuitamente dallo stesso autore a un museo israeliano, poi caduta nel vuoto: nessuna sponsorizzazione, nessun sostegno, nessun acquisto, neppure da parte delle istituzioni che prima avevano incoraggiato a parole l’operazione e poi avevano sfruttato senza ripagarla la generosità dell’autore.
Non sarà il primo fotografo tentato da un gran gesto in stile Fahrenheit 451: altri tentarono di consegnare alle fiamme, in punto di morte, la propria opera: Ernest J. Bellocq, il mite fotografo del Red Light District di New Orleans non riuscì (per nostra fortuna) a portare con sé nella tomba i teneri e divertenti ritratti delle sue affezionate prostitute; mentre il reverendo Lewis Carrol fece in tempo a far sparire le più imbarazzanti foto delle sue piccole Alici in deshabillé.
Ma Jean-Baptiste non si vergogna affatto del suo lavoro. Al contrario. Accusa il sistema di disinteressarsene. “L’arte è un lavoro che va a beneficio della società, e va pagato”. Jean-Baptiste dirà probabilmente qualcosa del genere davanti alla telecamera che filmerà il falò di domani. Per sé, terrà solo una sola serie di12 stampe del suo lavoro sacrificato sull’altare della società ingrata. Il luogo scelto per la drammatica rappresentazione non potrebbe essere più appropriato: Chalon infatti è il paese in cui fu scattata da Nicéphore Nièpce, che vi aveva la casa di famiglia, la presunta “prima fotografia del mondo”, la confusa veduta dalla sua finestra realizzata al bitume su una lastra di peltro nel 1826.
Fine di un’era? Ma i fotografi hanno sempre menato vita grama. La camera oscura è molto oscura per chi spera di camparci sopra. “Vuoi fare Fotografie? Apri una drogheria”, raccomandò un giorno il nostro grande Gianni Berengo Gardin a chi gli chiedeva consigli di carriera. Non è un ideale, ma è una realtà. Insomma al mondo ci sono sicuramente più geni incompresi che fotografi arrivati. Jean-Baptiste però ha scelto una forma simbolica di protesta che ce lo rende simpatico: è vero, nel sistema della fotografia (committenze, mostre, gallerie, aste, insomma mercato) oggi c’è una gran puzza di bruciato.
Alla galleria Arte e Arte, nel pieno centro pedonale di Bologna, sono esposte da alcuni giorni le opere di quello che molti considerano un mostro sacro della fotografia.
FRANCO FONTANA - ASFALTI - BEVERLY HILLS 2005
In mostra una ventina di sgargianti Fotografie del ciclo Asfalti, la produzione più recente di Franco Fontana, che inquadra la segnaletica orizzontale in modo analogo agli altri temi della sua precedente produzione, dal paesaggio all'architettura urbana al corpo: un pretesto per dare vita a immagini che vorrebbe sorprendenti, nelle quali non conta tanto la realtà del soggetto, quanto l'interpretazione, la capacità di reinventare il mondo e le sue figure attraverso l'obiettivo.
FRANCO FONTANA - ASFALTI - LONDRA 1998
Purtroppo però la quasi totalità delle opere presentate soffre per mancanza di effetto sorpresa: vuoi perchè ad alcune il formato "piccolo" (30x45 circa) non dona afffatto, vuoi perchè in effetti l'interpretazione astrattistica delle strisce colorate funziona davvero solo in poche delle immagini esposte.
FRANCO FONTANA - ASFALTI - MODENA 2005
FRANCO FONTANA - ASFALTI - VEVEY, SVIZZERA 2003
In realtà, la prima esposizone personale a Bologna del sempre sopravvalutato fotografo modenese, col suo ruffiano rincorrersi di ampie campiture cromatiche in un’articolazione formale geometrica, presenta opere in maggioranza già ben note al grande pubblico: gli asfalti migliori sono un pallido ricordo dei paesaggi urbani dell'inizio anni ottanta che hanno reso Fontana celebre in tutto il mondo, e risalgono agli anni 1995-2005.
Per concludere, un'occhiata ai prezzi, sbirciati da un listino manoscritto lasciato in giro per la galleria: circa 8000 Euro per le opere in grande formato (circa 120x70) e dai 5 ai 3000 per quelle più piccole (60x40, 45x30). Non è davvero troppo per degli asfalti molto deja-vue?
[Vista il 28 Gennaio alla galleria ArteeArte in Bologna con Andres, Fabri, Lilia, Marco, Melly, Paolino...]
Adam Nadel è un giovane fotogiornalista dell'agenzia Polaris i cui progetti Portraits of Noncombatants e Rwanda Testimonies sono entrambi lavori eccellenti e molto convincenti. "La mia speranza è che questo progetto [Portraits of Noncombatants] fornisca un contrappunto alternativo per connettere lo spettatore, senza sensazionalismi o voyerismo, alle conseguenze delle guerre, creando un'opportunità per farne comprendere al pubblico gli effetti sugli individui." (Adam Nadel)
"Se provi a criticare un artista popolare come Spencer Tunick sei inevitabilmente accusato di snobberia, ma voglio chiarirlo subito: non credo che nessuno possa confondere il suo sensazionalismo per arte.
Tunick è appena riuscito a persuadere 18'000 persone a spogliarsi per lui a Città del Messico per l'ultima della serie di sue Fotografie di nudi di massa in giro per il mondo. Bene, buon per lui. Ne avrà pubblicità, e i partecipanti sicuramente si son divertiti, e magari lo hanno pure trovato un atto terapeutico.
E allora? Il lavoro di Tunick non è arte, e nessuno che lo ha davvero cosiderato tale per un momento continuerà a sostenere che lo era davvero: non c'è un "pensiero" davvero interessante sotto il suo lavoro, nè si tratta di una sfida provocatoria a quello che rappresenta il mondo dell'arte. Le sue prodezze fotografiche si posizionano allo stesso livello di una scema campagna pubblicitaria: trovo davvero spregevole il modo in cui Tunick viene acclamato per qualcosa di così chiassosamente cinico.
[...]
Penso che molte persone segretamente odino l'arte. Non molto tempo fa era perfettamente rispettabile esprimere questo odio, almeno per l'arte moderna o contemporanea, ma oggi l'arte recita un ruolo così importante nella nostra cultura che tutti si sentono obbligati a creditarle servizio incondizionato... malgardo ciò l'ancestrale odio sopravvive sotto le ceneri..."
In effetti è vero, Spencer Tunick è molto chiassoso, è un po' come Christo senza averne la classe, ma, nonostante la sua sfacciataggine e la sottiliezza della sua visione del mondo, non mi dispiace il suo semplice messaggio di armonia fra l'uomo ed il suo paesaggio urbano.
Condivido invece in pieno la sentenza sul servilismo verso l'arte che pervade certi ambienti, e mi risuona addirittura un po' demagogico il restringerlo unicamente all'arte moderna (o contemporanea), quando invece risale alla notte dei tempi, alla irresolvibile questione della definizione dell'arte.
"The Human condition in Crisis" è il titolo dell'ultima dura collezione antologica di immagini del fotogiornalista americano Stanley Greene. La si può visitare nell'interessante ORGANISMuseum, museo virtuale allestito con grafica 3d da organism media.
Il reportage, alle volte, richiede coraggio. Il coraggio di partire ma anche quello di tornare. Il coraggio di documentare ma anche quello di rispettare. Il coraggio di fermare in un'immagine il più fermo degli istanti, la morte. Le Fotografie di Stanley narrano di un mondo scomodo, spesso volutamente celato. E del suo coraggio.. Un'esposizione composta da quaranta immagini alle quali si addice un unico aggettivo: vere. Dall'uragano Katrina all’ Iraq, da Haiti alla Cecenia, Stanley ferma per tutti noi ciò che il suo cuore vede e spesso ciò che vede è di una violenza disarmante, motivo per cui consigliamo la visione di questa mostra ad un pubblico adulto.
Il Museo Virtuale di ORGANISM è innanzitutto un'ottima idea, ed è poi ben realizzato, anche se è necessario installare il plugin 3d Life Player che permette la simulazione in grafica 3d degli ambienti di una galleria d'arte moderna.
"Non è pornografico, non è volgare. E' creare nuove forme con i nostri corpi" Spencer Tunick
Ottenuto il Bachelor of Arts nel 1988, il newyorkese Spencer Tunick cominciò a fotografare nudi nelle vie di New York nel 1992, ed è molto conosciuto proprio per le sue Fotografie che ritraggono folti gruppi di persone nude in contesti urbani o paesaggistici insoliti, non solo negli Stati Uniti, ma anche in tutto il mondo. Le sue non sono semplici Fotografie in posa, ma complesse installazioni con le quale Tunick, loro regista, vuole celebrare la bellezza artistica della pura nudità, al di là della taglia o del colore della pelle, quando ci si è spogliati di abiti e di pudore, e magari ci si è sdraiati sull’asfalto della nostra città.
"Generalmente lavoro alle prime ore dell'alba perché le persone sono più distese, meno violente, e poi non amo la luce piena del giorno, preferisco colori come il blu inchiostro o il grigio. Per le mie foto non capita mai che selezioni le persone in base a criteri di bellezza fisica, ritraggo solo chi me lo chiede espressamente" E così l’artista invade gli spazi metropolitani e naturali componendo strade, architetture e paesaggi di nudo umano. Nelle sue foto centinaia di corpi nudi, si costituiscono come parte del paesaggio. I nudi di Spencer Tunick non hanno niente a che fare con le rivendicazioni di ideali comunitari d'amore libero su modello Woodstockiano: la sua finalità è quella di restituire al corpo umano, nella sua imperfezione, la sua inalienabile dignità.
Le immagini scattate da Spencer Tunick raccontano di centinaia di centinaia di corpi che denudati perdono le loro differenze. Simmetrico, patinato, perfetto, è questo il corpo che la gran parte dei media c'impongono. Su questo stereotipo culturale riflette il lavoro di Tunick, immagini dove i corpi perdono, le loro caratteristiche corporali per acquisire quelle di forme astratte in un paesaggio metropolitano. Ma c’è anche qualcosa di più. Le sue foto descrivono paesaggi epici, antichissimi o forse di un futuro in cui sarà accaduto qualcosa di bellissimo o di terribile, ma comunque irreparabile. Da cui non si torna indietro.
Nel suo sito Tunick raccoglie le immagini archiviandole come "temporary site-related installations" e non si dilunga sulla "filosofia" che guida le sue composizioni: in poche righe riassume il suo punto di vista mentre, al contrario, racconta più dettagliatamente la battaglia legale affrontata per far valere il proprio diritto di esprimersi in base al primo emendamento della costituzione americana. Dopo anni di attività ha proseliti in tutto il mondo, ma ancora nessuno è riuscito a oscurare la sua fama e il formidabile attivismo. In cambio, il suoi modellli non chiedono assolutamente nulla: sono "volontari" chiamati attraverso la rete o con un passaparola in grado di solcare gli oceani pronti a posare in quel determinato luogo e a quell'ora, naturalmente senza nemmeno un braccialetto. Diventare "tunickomani" è facilissimo: è sufficiente indicare i propri dati nel form "sign to pose" ("firma per posare") e indicare la tonalità di colore della propria pelle. Quindi inviare. Spencer non richiede la "bella presenza", ma l'adesione al suo progetto che oggi si chiama "Naked World".
Esilarante, ironica, audace o impudente e triviale? Una nuova frontiera dell’arte figurativa o un’offesa al pubblico decoro? Oppure semplicemente un'altra storia di ordinaria follia? Non solo ai posteri l’ardua sentenza, se consideriamo che Spencer Tunick alla fine è uscito vincitore da tutte le battaglie legali e che le sue Fotografiesi sono guadagnate un posto in prima fila nei musei d’arte contemporanea. Nudi e crudi, come mamma ci ha fatto. Di tutte le taglie, di ogni colore. E' così che ci vuole Spencer Tunick, spogliati di abiti e di pudore magari sdraiati sull’asfalto delle nostre città. Ma il fine è nobile e sublime: la celebrazione della "bellezza artistica della pura nudità”. Una proposta troppo indecente? Dipende. Certamente sì per Rudolph Giuliani, ex sindaco di New York, che fece arrestare Tunick nel 1999 per aver fatto distendere 50 corpi nudi a Times Square. Assolutamente no per il governo del Canada che lo ha invitato come ospite d’onore, o in Russia dove lo stesso direttore di un grande museo ha posato senza veli, o in Australia e Spagna con le adesioni trionfali di 4500 e 7000 volontari con i glutei gioiosamente al vento. E' dal 1994 che Tunick realizza scene di nudo di massa e ritratti. E’ stato in tutti e sette i continenti, reclutando migliaia di volontari in oltre 50 città del mondo, da Montreal a San Pietroburgo, da Santiago del Cile a Parigi, da Barcellona a Basilea, da Buenos Aires a Londra, da New York a Roma. Definisce le sue opere artistiche “installazioni di nudo su larga scala”, una forma surreale di collage umano dove i tasselli sono i corpi spogliati e utilizzati come elementi di nuove forme. E così l’artista invade gli spazi metropolitani e naturali componendo strade, architetture e paesaggi di nudo umano. A Roma in Piazza Navona, a New York in Times Square e Central Park, in Nevada nel deserto. E ogni volta puntualmente fornisce materiale di disquisizione non solo a studiosi d’arte ma anche a psicologi sociali e ad ospiti di talk show. Vi è per caso venuta la voglia di partecipare al prossimo happening di nudo su larga scala? Potrebbe essere il vostro momento di gloria. Il modulo d’iscrizione è on line.
Proprio in questo week-end Spencer Tunick sta realizzando un'altra delle sue installazioni a Città del Messico. Sarà un altro record di presenze?
UPDATE 6 maggio 2007: Leggo su Repubblica.it che nella piazza principale di Città del Messico l'ultima installazione di Spencer Tunick ha superato il record precedente stabilito a Barcellona. Ecco alcune foto dell'evento che ha raccolto circa ventimila persone, così come sono state rimbalzate dalle agenzie di stampa:
La superficialità e la chiassosità del fotografo americano David LaChapelle sono la sua vera forza. E' sempre così dichiaratamente e volutamente provocatorio che non gli si può dire nulla: lui, quando comunica, non parla, ma URLA. Ultimo vero baluardo della culura pop degli anni 70, è diventato uno dei più acclamati fotografi dello show-business. Nel suo sito però, soprattuto tra i portrait, ci sono Fotografie che sono veri e propri capolavori di espressività, molte delle quali gli hanno guadagnato, oltre al successo commerciale, anche fama nel mondo della fotografia d'arte.
The Last Supper
LaChapelle è un fotografo, anzi è il fotografo, ha fotografato TUTTI. Se vi viene in mente il nome di una star dello show business, una QUALUNQUE, una che conti almeno qualcosa, state certi che lui l’ha fotografata, perchè se conti qualcosa nella torbida valle di Hollywood non puoi non avere una foto di David. E per David si intende proprio lui LaChapelle. Roba che Courtney Love dovrebbe baciare la terra su cui lui cammina e ringraziarlo a vita per le foto che le ha fatto a quella sciamannata con il mascara sempre sbavato, gli NSYNC dovrebbero genuflettersi per quella foto in cui hanno per la prima e probabilmente l’ultima volta nella loro vita uno spessore artistico. Perfino Tori Spelling sembra possedere un qualche tipo di fascino e di mistero.
Madonna
David, il cappellaio matto, il prestigiatore delle star, riesce a far apparire tutti stupendi e speciali in qualche modo. E’ riuscito a far sembrare le tette di Pamela Anderson giustificabili dal punto di vista artistico. E il bello è che lui non trasforma la persona che ha davanti, non la cambia, ma solo la ESPANDE, prende il lato migliore e lo esagera fino a farlo sembrare irresistibile per chiunque guardi, per lui, come per mia nonna quando cucina, niente è mai troppo.
Paris Hilton
Quando ero piccola mi raccontavano una favola su di un anello che se lo indossavi faceva innamorare tutti di te, ecco, secondo me David possiede quell’anello, ma invece di tenerselo solo per se, lo presta alla persona che deve fotografare, ma per poco, giusto il tempo dello scatto, poi possono continuare a fare la loto, banale, noiosa vita da star. I colori sono ovviamente saturi, si sparano diretti nel cervello, alla base del sistema nervoso di chi guarda. Se è eccessivo è lui. Se è colorato è lui. Se vi sembra pornografia di bassa lega e coi colori sbagliati è lui. Se vi sembra che qualcuno stia urlando mentre guardate una foto è sempre lui.
Angelina Jolie
L’espressione GENIO sembra essere stata coniata apposta per lui, ma nel senso di diavoletto, di genietto ‘platonico’ e malizioso, un Daemon, un Satiro che scorrazza nel dorato mondo di Hollywood, un Puck contemporaneo che sparge la polvere magica dello scandalo sugli occhi della gente.
Britney Spears
Ha girato video musicali, ha girato spot pubblicitari che voi vedete ogni giorno quando accendete la televisione, ha fatto le copertine di innumerevoli dischi che voi probabilmente possedete (Maria Carey spero di no), ha firmato le copertine di praticamente qualsiasi settimanale sia uscito negli ultimi dieci anni in ogni parte del mondo. Gael Garcia Bernal non sapeva di essere Gael Garcia Bernal prima di essere fotografato da LaChapelle, o pensavate che fosse tutto merito di quella motocicletta scarcassata che guidava? LaChapelle è intorno a voi e voi neanche ve ne accorgete, e ne avrete ancora e ancora finchè LaChapelle avrà vita.
Se ancora non vi basta, qualsiasi cosa si sia anche accidentalmente frapposta tra l’obbiettivo fotografico di quest’uomo e la realtà negli ultimi dieci anni è probabilmente arte. LaChapelle è America, è come uno di quei mega barattoli di maionese o di burro di arachidi che qui in Italia non esistono. LaChapelle è un Big Mac, ipercalorico, coloratissimo, grande, eccessivo, immangiabile.
Definire fotografia l'opera di LaChapelle è sicuramente una semplificazione, le sue sono immagini dove realtà, sogno e dissacrante surrealismo, si fondono in una rappresentazione che lascia sconcertati e affascinati. Nasce a Farmington Connecticut nel 1963, nel 1978 si trasferisce a New York cominciando la sua avventura artistica con Andy Warhol, per la rivista INTERVIEW fino al 1987, anno della scomparsa del grande artista. A 24 anni David è già una grande firma del fotogiornalismo con servizi per VOGUE, VANITY FAIR, THE FACE (fra le più importanti riviste di moda e costume). Nel 1996 vince il premio come fotografo dell'anno, inoltre il suo primo libro fotografico "LaChapelle Land" va a ruba, nel 1999 il secondo libro di immagini "Hotel LaChapelle" si conferma un best seller.
Pubblicità Motorola
Il genio creativo, esplode in tutta la sua virulenza espressiva, quando LaChapelle esce dagli angusti limiti del genere ritrattistico o giornalistico. Le sue creazioni falsamente astratte, anzi di un simbolismo deflagrante e volutamente blasfemo, sono il prodotto di una ricerca tanto lucida quanto visionaria. Si tratta di immagini pensate e costruite con senso del grottesco e dell'impossibile, in una miscela esplosiva di colori violenti, ironia, sensualità, oltraggio. Il tutto però non è gratuito, ma vuole essere una satira della vacuità, dell'edonismo, del vuoto apparire privo di contenuti del nostro tempo, ma senza drammatizzazioni e anzi con una visione divertita e disincantata. Quella di David LaChapelle è poi una ricerca di sperimentazione pura, essendo le sue opere frutto di elaborazione e fotoritocco digitale, dello stesso autore.
“Cerco il brutto nel bello e il bello nel kitsch. I miei scenari preferiti sono i McDonald's e le auto da poco, all'inizio oziavo in questi posti, ora li fotografo. Mi allontano deliberatamente dalla realtà di tutti i giorni, la vita è troppo triste. La comicità è una forma di bellezza: guardate John Belushi, lui era bello perché era buffo”
LaChapelle in fondo con la sua arte cerca il grottesco del quotidiano e il bello dove proprio non c'è.
Era il 1936, e la fotografa amercana Dorothea Lange stava lavorando per uno dei progetti voluti dall'amministrazione di Franklin Delano Roosvelt al fine di verificare e documentare lo stato dell'economia rurale di un paese duramente provato dalla crisi economica seguito al crollo del 29.
In questo contesto la Lange scattò la sua fotografia più famosa e più sopravvalutata. D'altra parte, con questi progetti si stava segnando la nascita del fotoreportage, o fotografia documentaristica che dir si voglia... eravamo giustappunto nel 1936, e finalmente erano disponibili apparecchi trasportabili: era la prima volta che la macchina fotografica era vista come strumento di documentazione di importante valore sociale e politico, esattamente come affermato oltre 70 anni più tardi da James Natchwey nel suo discorso di accettazione del TED Prize 2007. Quello che forse passerà alla storia come l'orazione funebre della documentary photography.
Sono quasi certo che l'avete vista prima... si intitola Migrant Mother ed è una delle più famose Fotografie americane. Quando scattò questa foto, Dorothea Lange si dimenticò di annotare il nome della donna (o altri dettagli utili al suo progetto di documentazione) così la sua identità rimase anonima anche se la foto si apprestava a diventare un simbolo della Grande Depressione.
"I wish she hadn't taken my picture. I can't get a penny out of it. [Lange] didn't ask my name. She said she wouldn't sell the pictures. She said she'd send me a copy. She never did."
Oltre a non aver registrato il nome della donna, la Lange ha anche sbagliato un'altra cosa: la Thompson e la sua famiglia non erano affatto i tipici migranti della Grande Depressione, ma erano stanziali in California da più di 10 anni. Come tutte le Fotografie, Migrant Mother non è nè realtà nè finzione, piuttosto qualcosa di intermedio...
19/04/2007 - Osservando le idiosincrasie, i difetti, le finte realtà, le convenzioni e i paradossi della società americana - Le fotografie di Eric Boker
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Ogni opera d’arte ha due facce: una rivolta al proprio tempo e una al futuro, verso l’eternità.
Avviso Questo blog non rappresenta una testata di nessun tipo, tanto meno giornalistica, in quanto viene aggiornato in modo scostante e discontinuo, come il suo autore.
Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale (e non potrebbe neanche fosse periodico) ai sensi della legge n.62 del 7.03.2001.
Watching Mostly French and Danish productions, all Stanley Kubrick's filmography, Wim Wenders, Woody Allen, Roman Polanski, Godard, Truffaut, Jim Jarmusch, Ken Loach, Kieslowsky...