Sono quasi le tre del pomeriggio, e il baccano della tormenta si sta abbattendo sulla città. Con le sue violente raffiche di vento e pioggia, inframezzato dal vocìo della strada e dall'acre fumo dei tegami, mi ha sbattuto con forza giù dal letto dopo solo poche ore di sonno. Le ossa, il collo in particolare, mi fanno un po' male. Intorno solo tanti bicchieri di plastica rovesciati, qualche macchia sul tappeto e odore acido di liquori e di spezie, e del wok del ristorante sotto casa che sta sfriggendo carni e riso ormai da troppe ore.
Che serata ieri sera! Che bello vedere tanta gente in festa nel grande appartamento sperduto in questa immensa periferia che la compagnia mi ha messo a disposizione: c'erano tutti, e, quasi quasi, sono stati anche simpatici con me, anche se ci conosciamo e ci capiamo appena. Non avrei mai creduto che un po' di buon vecchio french touch che usciva dal mio lettore mp3, amplificato appena dai diffusori rigorosamente “Made in Taiwan” presi a prestito dal mio vicino, potessero creare una tale atmosfera... Merde, quanta merda rovesciata per terra. Azzz anche sul muro appena intonacato... speriamo che quel truce del padrone non s'incazzi poi se sarà difficile coprire l'odore da fetido bar di perifieria italiana che il martini e ore di sigarette hanno fatto già stagnare in questa casa. Dio che fastidio, vorrei vomitare.
Ora che ci penso, è una vita che non lo faccio. Da quando non fumo più, penso. Neanche dopo le sbronze più catastrofiche. Per questo, soprattutto per un ipocondriaco come me, non è bene star per vomitare. Proprio ora e per davvero, e per di più senza aver quasi toccato alcool ieri sera. Certo che per un ex-quasi-bulimico sto davvero mangiando troppo e male da quando sono lontano: dopo il pranzo di pesce crudo e riso al ristorante giapponese dove c'era anche la tipa mora e alta, dai lunghi capelli corvini decorati con fiori di campo porpora, che quasi quasi avrebbe potuto farmi di nuovo battere il cuore, ieri ho poi fatto aperitivo al lounge bar finto-newyorkerse in centro, ma bevendo quasi nulla... Poi, a cena, prima pollo, curry, tanto pollo e tanto curry a dire il vero, e tante altre cose e altre spezie, alla taverna locale, eppoi formaggi, ostriche e profumate delizie al ristorante francese. Infine, al termine della nottata, tutte le pizzette che avevo fatto arrivare apposta per intrattenere gli ospiti chiamati da me per l'after-dinner. Merda che nausea.
Nella patria della tecnologia di consumo non sono ancora dotato di una connessione internet domestica, incredibile. Il mio cellulare, chissà perchè, proprio qui non trasferisce dati, e tutto quello che riesco a fare è sbattermi da una parte e dall'altra della metropoli per restituire quasi ogni fine giornata la chiavetta da 16 Giga ricolma di sgargianti immagini da mal di stomaco. E il mio blog, e gli altri progetti, e non solo quelli, ne risentono... ho sempre tanto sonno, e tanto ritardo nel fare le cose. Proprio dal primo giorno, proprio da quando sono salito sull'aereo alle 14 per uscirne a mezzanotte. Peccato che qui fossero le 8 del mattino, e che la prima riunione col mio agente distava solo due ore, e che a quasi quarant'anni le notti in Bianco son pesanti...
Non sono più in occidente, ma neanche in estremo oriente forse. Sono qui, ora, ed è bellissimo. Ed è tutto molto, ma molto, strano, e molto istruttivo. Incantevole, vorrei dire, ma non so.
Peccato solo che ora non vorrei far altro che vomitare...
Se c’è qualcosa che da solo sublima e diventa etereo in una scena, senza dubbio è colpa di Marcel Marceau.
Il silenzio delle foreste, dei cortili assolati dalle torridi estate del sud d'Italia, il silenzio della notte, e anche il silenzio degli storici a noi contemporanei: Marceau è un miliziano che ordina e mette in ordine il silenzio a fine giornata, a tutto e a tutti; questo è Marcel Marceau!
E “Bip”, il personaggio per cui è diventato popolare, la sua voce. La voce del principe del silenzio.
Grazie Marcel per tutti i pomeriggi in cui mi hai regalato i sogni di bambino. Grazie anche se alcuni di quei sogni li so interpretare solo ora. Grazie per esserci stato dentro quel minuscolo cinescopio in Bianco e nero che solo noi nati nei sessanta osiamo ancora ricordare.
Buonanotte Marcel, e adieu.
DISPACCIO ANSA DEL 2007-09-23 15:59 - ADDIO MARCEL MARCEAU, IL CHARLIE CHAPLIN DEL MIMO PARIGI - Marcel Marceau, il Charlie Chaplin del mimo, morto ieri sera all'età di 84 anni, con il suo personaggio Bip, portato in tutto il mondo, aveva sollevato l'arte del mimo al suo massimo. Nato a Strasburgo nel 1923 con il nome di Marcel Mangel nel 1939 aveva cambiato il cognome in Marceau per nascondere le sue origini ebraiche. Entrato nella resistenza nel 1944, alla fine della guerra aveva pensato di dedicarsi alla pittura e di seguire la scuola d'arti decorative di Limoges. Ma la passione del teatro alla fine aveva prevalso; Marceau aveva debuttato sotto Charles Dullin nel 'Volpone' nel teatro di Sarah Bernard.
Ma l'incontro nel 1946 con Etienne Decroux ha segnato la sua scelta definita per il mimo. Nello stesso anno ha recitato con la compagnia di Renaud-Barrault il ruolo di Arlecchino nel 'Battista', una pantomima tratta dal film di Carné Les enfants du paradis. E' dalla sua passione per Buster Keaton, i fratelli Max e soprattutto Charlie Chaplin che nasce l'anno dopo il personaggio di Bip. Bip, il Pierrot del XX secolo, era nato nel 1947; figlio delle difficoltà del dopo guerra e del nuovo mondo che si delineava con un modello come riferimento: il vagabondo di Chaplin.
Nel 1949 aveva fondato la compagnia di mimo Marcel Marceau, la prima al mondo del suo genere. Via via Marceau con una serie di lavori come Le jouer de flute, Exercises de style, Le matador, Le petit cirque, Paris qui rit, Paris qui pleure, aveva saputo imporre la sua figura, la sua silouette nervosa e minuta, il suo viso livido attraversato da tutti i sentimenti, dall'allegria alla tristezza più cupa.
Diventato famoso anche oltre oceano, Marceau aveva partecipato negli Stati Uniti anche a numerosi film quali First class, Shanks, Barbarella (di Roger Vadim), Silent movie, ovvero L'ultima follia (di Mel Brooks). La compagnia di Marceau ha lavorato negli anni nei principali teatri parigini e mondiali; dal 1969 al 1971 l'artista ha animato la scuola internazionale di mimo e poi nel 1978 ha dato vita alla scuola internazionale di mimodramma di Parigi.
Eletto all'Academie des beaux-artes nel 1991, due anni dopo ha organizzato la nuova compagnia del mimodramma di Marcel Marceau che ha animato la scena dell'espace Cardin dal 1993 al 1997. Il grande mimo ha anche scritto numerosi libri tra i quali la storia di Bip, il terzo occhio e diversi lavori per bambini. La cerimonia funebre del Charlie Chaplin del mimo, morto attorniato da tutta la famiglia, si terrà al cimitero monumentale di Parigi di Pere Lachese. Per il momento i figli hanno annunciato di non voler rendere note le circostanze e il luogo della morte di Marcel Marceau.
Sulla punta della lingua, o tip of the tongue, come dicono oltremanica, è un nuovo progetto che inizia pubblicando il saggio della curatrice newyorkese Charlotte Cotton "The New Color: The Return of Black-and-White", notato grazie agli articoli su photo muse-ings. Su questo promettente nuovo sito dedicato alla fotografia contemporanea, il saggio della Cotton, autrice anche dell'eccellente libretto "The Photograph as Contemporary Art" recita:
..But it is definitely more hit-and-miss for a photographer working in black-and-white to anticipate whether or not the full meaning and contemporary relevance of their imagery will be understood in light of color art photography’s dominance. At the beginning of this millennium, I found it difficult to keep my confidence that photography’s monochrome history continued to exert a strong influence on the way we see...
A career-oriented art photographer (and maybe this is the first generation of artists who can consider it a “career”) sticks very close to the now well-traveled path of contemporary color photography’s aesthetic homage and partial remembrance of, for example, gorgeous Kodachrome, or the beam of an enlarger. In a career-oriented era, perhaps this strategy is wiser than trying to beat a path through the resistance to presenting imagery in other ways and forms that actually respond to the potential of digitization. Of course I feel bemused at why a nascent art photographer would be so openly conservative as to adhere to apparent conventions, and at my most pessimistic, I wonder if there’s too much “trying-to-be-like” Eggleston, Shore, et al., and too little “creative-departure-from” the stellar standards that they have set...
Che sia corretta o meno nelle sue previsioni, o giustificabile nei suoi entusiasmi, questa è tutta un'altra questione. Di certo si tratta di una lettura provocatoria, e penso che molti fotografi tradizionalisticamente analogici e figurativi, compreso il digitalissimo sottoscritto, forse non approveranno alcune delle sue scelte di Bianco e nero contemporaneo. E, malgrado personalmente ami anch'io visionare o produrre quello che si potrebbe definire fotografia a colori contemporanea, sono abbastanza consapevole del fatto che esistano ulteriori direzioni da esplorare col Bianco e nero...
Sarà inoltre interessante vedere se questo nuovo revival del Bianco e nero prenderà davvero mai piede. Francamente ci sono anche alcuni fotografi dell'era pre-colori degli anni '70 che realizzavano progetti meno narrativi e più grafici, più simili alla serie The New Scent di Jason Evans. Se mai il Bianco e nero prendesse di nuovo piede, rivitalizzarà anche il mercato delle pellicole, della camera oscura tradizionale, etc. etc. oppure la sua resurrezione rimarrà, come credo, totalmente digitale?
Infine mi chiedo come possa evolvere l'arte visuale che amo di più dalla propria intrinseca ancestrale derivatività nell'era della manipolazione teconolgica, ma questa e tutta un'altra storia, che spero di poter coprire con un apposito articolo appena possibile...
Inutile negare che la vita non è equa nel distribuire le sue fortune, pertanto, vivendo dalla nostra parte del mare, bisogna assolutamente fare qualcosa di concreto per aiutare gli altri. In ausilio a noi, in genere perennemente soggiogati dalle ansie del sistema produttivo, vengono svariate ONLUS che possono servire ad alleviare il pur giusto senso di colpa. Per questo ho aggiunto al blog i link ad alcune ONG che stimo particolarmente utilizzando un servizio interessante: Bloggers for Equity.
Il Progetto prende il nome di “Bloggers for equity”, e nasce con lo scopo di rendere più visibili e più facilmente accessibili i metodi di donazione economica verso varie associazioni umanitarie. Al Progetto possono aderire tutti i proprietari di spazi Web che lo desiderano e - manco a dirlo - l’adesione è del tutto gratuita, come lo è l’intera operazione. Gli unici movimenti economici saranno le donazioni che verranno effettuate dai visitatori degli spazi Web dei Soci tramite i box di “Bloggers for equity”, che non passeranno per la nostra organizzazione; tali donazioni andranno direttamente dal donatore alle organizzazioni umanitarie sponsorizzate nei siti dei Soci. Il Progetto è sostanzialmente una vetrina per le associazioni umanitarie. “Bloggers for equity” si fonda su un doppio sistema di sicurezza e trasparenza:
* la scelta delle organizzazioni umanitarie da inserire nel Progetto è subordinata alla valutazione dell’operato della singola organizzazione umanitaria candidata da parte del Comitato Direttivo del Progetto, sulla base dei criteri della serietà e dell’affidabilità;
* il singolo Socio di “Bloggers for equity”, al momento di esporre il “Box for equity” nel proprio spazio Web, effettuerà un’ulteriore selezione, scegliendo quali e quante organizzazioni coinvolgere nel box personale dal novero di quelle a priori scremate dal Comitato Direttivo, sulla base del criterio soggettivo. In questo modo, ad un primo controllo fondato maggiormente sull’affidabilità oggettiva dell’organizzazione umanitaria se ne aggiunge un secondo che fa leva sulle inclinazioni soggettive del singolo Socio, che potrà scegliere in piena autonomia - sulla base di convinzioni personali - a quali delle organizzazioni umanitarie offrire una visibilità sul proprio spazio Web, sicuro che nel novero dal quale sceglie si troveranno solo organizzazioni verificate. Il Comitato Direttivo non suggerirà né limiterà in alcun modo questa scelta; si limiterà - se richiesto dal Socio - a fornire un parere sul singolo caso.
Francesco Minciotti
Riguardo l'affidabilità oggettiva delle ONLUS non dimentichiamoci infatti che l'uomo è uomo, ed è intrinsecamente diffettoso anche quando si concede, per "fare la carità", una qualsiasi forma organizzativa. Purtroppo, esistono anche situazioni potenzialmente imbarazzanti, come riportato ad esempio dalla trasmissione del 6 dicembre di Radioanch'io, approffondimento giornalistico del GR1 RAI condotto dal bravo Stefano Mensurati:
06/12/2006
CHE FINE FANNO I SOLDI DEGLI AIUTI UMANITARI? Ascolta Che fine fanno i finanziamenti statali della cooperazione allo sviluppo, gli aiuti umanitari dei privati al Terzo mondo, le donazioni alle campagne di raccolta fondi per la ricerca, le offerte alla miriade di piccole associazioni no profit che spuntano come funghi nel nostro Paese? Quanto arriva a destinazione e quanto si perde per strada? E soprattutto, chi controlla? A Radioanch'io accenderemo i riflettori su di un settore dove la straordinaria abnegazione e onestà di tanta gente perbene è talvolta offuscata da una gestione dei soldi poco trasparente e tutt'altro che parsimoniosa.
L'iniziativa B4= va proprio nella direzione di un utilizzo responsabile anche dei servizi degli operatori umanitari, anche perchè è difficile in genere reperire informazioni sulla trasparenza dei bilanci e sulla effettiva percentuale di risdistribuzione dei proventi delle elargizioni volontarie incassate dalle organizzazioni Non profit.
Qundi andate sul sito di B4= ed aderite numerosi all'iniziativa facendo le vostre scelte, e, mi raccomando, occhi ben aperti, e casco sempre ben allacciato
Il suo patinato formalismo è agli antipodi rispetto al mio modo a volte "sporco" di vedere il reportage in modo fotogiornalistico. Malgrado ciò, non si può negare che Monte Zuckerfosse forse il più noto e il più imitato dei fotografi del "matrimonio tutto in posa, in cui sembrare bellissimi". Scolastico proprio fino alla morte: poco prima di morire aveva tramutato il suo scolastico modo di trasformare con la luce la realtà in qualcosa di leggero e possibile, in una istituzione educativa per futuri emuli del suo classicismo ritrattistico. Delle sue facili tecniche di posa e ripresa ha lasciato anche qualche appunto on-line. Ho letto solo oggi su washingtonpost.com che è venuto a mancare questa celebrità molto glocal. Adieu Monte. Tutti i principianti del mondo sentiranno la tua mancanza.
Ho avuto la fortuna di conoscerlo nell’agosto del 99. Bell’annata per me il 99, sì. Fra le mille persone interessanti, incrociai proprio lui, Jim Goldberg, che si trovava in toscana per tenere workshop a fortunati figli di papà con l’hobby della foto. Non siamo diventati amici però, forse emotivamente troppo lontani allora. Ricordo, sbiadite ma emozionanti, un paio cordiali di cene in una lunga tavolata. Ricordo le risate, il vino, le ragazze che ascoltavano le sue storie. E lui che si compiaceva, con sommessa simpatia. E sì, già allora Jim di strada ne aveva fatta: aveva superato i 40 e praticamente si manteneva solo con le varie sponsorizzazioni che aveva ottenuto da fondazioni o musei d’oltreoceano, e aveva già pubblicato due o tre libri con progetti importati. Così, al contrario di altri fotografi che dovevano intrappolare la loro sensibilità creativa all’interno delle regole del mondo del business professionale per il 99% del loro tempo, Jim poteva già allora esprimersi e basta. Poteva far correre i pensieri e le visioni. Poteva portare il suo intimo contributo alla documentary photography domestica, ormai surclassata dal bombardamento mediatico dei Nachtweyda guerra. E lo faceva con animo umile e curioso, con atteggiamento di condivisione, come fu condivisione anche il momento in cui accese il proiettore e mostrò alcuni suoi scatti, molti dei quali ora potete vedere sul sito della Magnum Photos. Già, il bravo Jim Goldberg, l’artista reporter del disagio privato e sociale nell’america patinata della New Economy, è diventato membro ufficiale della scuderia Magnumda pochi mesi. Complimenti Jim: tu non lo sai, ma dopo che abbiamo sfogliato assieme il tuo splendido Raised by Wolves, lo ordinai. Su internet, ovviamente.
La prima cosa che colpisce del lavoro del fotografo Ceco Jan Saudek è che le persone nelle sue fotografie di nudi sono gente comune, persone della porta accanto, e non supertop da copertina. La seconda che molte delle sue immagini sono divertenti: ricordo ancora il pomeriggio della fine deglia anni 90 in cui, in una libreria in centro, con un amica e un'avventore causale, girammo assieme le pagine di uno dei suoi primi libri sbellicandoci dalle risate.
Le sue immagini esplorano più i sogni che la realtà, sebben fortemente caratterizzate dalla sanguigna personalità sempre espressa dalla persona ritratta, e dall'uso della colorazione manuale dell'immagine che produce per se un effetto onirico e non realistico, anche se, ad onor del vero, la scelta di Jan fu dettata dalla accidentale difficoltà di reperire pellicole e sviluppi a colori. Le sue immagini sono contemporaneamente un pugno nello stomaco ed un gioioso inno alla vita, sprizzano forza da tutti i pori, a volte in modo divertente, a volte pateitco, o altre volte un pelo volgare... proprio come la vita vera.
Da un paio di anni Jan Saudek si è dotato di un grandioso sito internet con quasi 400 sue immagini online, ed anche alcune della sua modella/musa/moglie Sarah. Obbligatoria la vista, senza fretta, e la riflessione: sulla vita in genere e sul modo tutto particolare di Jan e Sarah di comunicarla.
Sàra incinta
2 Big 4 U 1981
Rainbow
Espada 1996
Parabellum
Sonho alusivo 1976
Untitled 1987
Luisa 1987
Phorographer as Jesus 1991
TV Lovers 1991
A conquista do Paraíso 1995
Shy Congratulators 1996
Pieta 1997
Vendedor de carne branca 1997
Rapariga checa cantando 1990
Ida 1990
Untitled 2003
La tecnica di Jan Saudek
Jan Saudek è uno di questi, egli è considerato uno dei principali artisti cecoslovacchi contemporanei, è un grande fotografo, un eccellente pittore e fine calligrafo. Nato nel '35 è sopravvissuto alla deportazione nazista mangiando erba e dentifricio. Durante gli anni del regime Saudek, che ancora non era conosciuto come artista, lavorava in fabbrica (e lo ha fatto per 32 anni) ma durante il tempo libero coltivava la sua passione per l'arte e la fotografia nell'umida cantina di casa sua.
In questo modo la sua personalità artistica diventa sempre più forte e sempre più definita. Le sue immagini parlano di maternità, di esibizionismo, di feticismo ma anche di parodia del corpo umano, con uno stile assolutamente unico e inimitabile.
Le modelle sono, in genere, sue amiche o conoscenti, come la sua bella compagna e altrettanto valida artista Sára Saudková, che fotografa spesso insieme alla sua amica Olga. Nelle foto di Saudek appare un unico uomo: egli stesso. Dice che non lo fa per narcisismo ma per semplificarsi la vita perchè gli uomini quando devono posare nudi sono sempre impacciati e imbarazzati così fotografa se stesso e risolve il problema.
Non sempre è soddisfatto delle proprie opere ma ammette che se vedesse le sue foto fatte da qualcun altro morirebbe di invidia. Dichiara in un intervista rilasciata in occasione della pubblicazione di un suo libro: "Se una fotografia non racconta una storia non è una fotografia. Forse è la storia di tutti i nostri pensieri, quelli che diventano pubblici e sfidano i luoghi comuni e quelli che per pudore restano confinati".
Le sue foto, in origine erano in Bianco e nero o virate seppia, poi decise di sottoporre alcuni amici ad un test: mostrò loro tre versioni di una stessa foto, una in Bianco e nero, una virata seppia ed una colorata a mano, tutti scelsero quest'ultima, così prese la decisione di colorare manualmente i suoi scatti in Bianco e nero con colori trasparenti ad acqua dando vita a capolavori di straordinaria bellezza.
Le riprese, durante i suoi primi anni di carriera artistica, venivano effettuate in una cantina, usando come sfondo un muro scrostato dall'umidità che era perfetto per sfumature e tonalità di grigio che restituiva alle foto. Ora può permettersi diversi appartamenti anche lussuosi ma in tutti ha riprodotto quello stesso muro che ha usato tante volte in gioventù.
Un articolo del New York Times fa notare che "dall'anno scorso i militari hanno applicato un nuovo regolamento che prevede di ottenere l'autorizzazione dai soldati feriti prima che le fotografie di guerra possano essere pubblicate". Bisogna ammettere che un modo piuttosto ingegnoso per evitare che il pubblico possa vedere le conseguenze della disastrosa guerra in Iraq di George W. Bush ...
...(che, non dimentichiamolo, è anche la guerra di quei Senatori che a suo tempo diedero a Bush l'autorizzazione per essa, e di quelli che hanno appena allungato a Bush altri soldi senza condizione). Così adesso siamo nell'assurda situazione in cui la gente non può far nulla per la guerra (perchè qualsiasi cosa che non sia lasciar fare al Presidente tutto quello che vuole "non sarebbe di supporto alle truppe"), e i cittadini non possono neppure vedere cosa sta succedendo (perchè anche fare fotografie "non sarebbe di supporto alle truppe"). (via Conscientious)
Il tradimento dei democratici che hanno staccato un nuovo assegno in Bianco alla guerra di George W. Bush è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E Cindy Sheehan, la madre di Casey - ucciso a 24 anni a Bagdad nel 2004 - diventata il simbolo del 'no' alla guerra, ha mollato: esausta, delusa e arrabbiata ha annunciato la sua intenzione di lasciare il movimento per la pace. E, in una lettera pubblicata da un sito liberal proprio nel Memorial Day, afferma: "Ho cercato per tutti questi anni di dare un senso al sacrificio di mio figlio ma ora sono giunta alla più devastante delle conclusioni: Casey è veramente morto per niente". "Casey è morto per un paese al quale interessa di più sapere chi sarà il vincitore del nuovo reality, piuttosto che quante persone perderanno la vita in Iraq nei prossimi mesi, mentre democratici e repubblicani giocano alla politica con le vite umane". (via Repubblica.it)
A quasi quarant'anni dai "Manicomi" di Gianni Bernego Gardin e Carla Cerati, non innova ma continua ad emozionare il reportage sociale di Francesco Cocco, anche lui della scuderia Contrasto, in mostra da ieri fino al 30 marzo alla Sala Santa Rita di Roma. Gianni Berengo Gardin stesso, nell'introduzione della ristampa del suo storico lavoro, sostiene che: "Spesso non è necessario mostrare foto agghiaccianti per raggiungere un obiettivo. A volte può essere più efficace una fotografia più, come dire, coinvolgente dal punto di vista umano. Che stabilisca un rapporto emotivo e di solidarietà tra il soggetto fotografato e chi guarda la fotografia. Un atteggiamento, uno sguardo un'espressione. Altrettanto importante è non inflazionare i mezzi di comunicazione con fotografie di violenza poiché, come è già stato detto e scritto, la gente non reagisce più e si verifica una sorta di assuefazione" (leggi l'intervista su informatissimifotografia.it).
E le immagini di Cocco sono ottima prova di quanto sono vere queste parole.
ROMA - Istantanee scattate nelle celle e nei corridoi delle carceri italiane. Un viaggio insolito, per ritrarre quello che comunemente rimane nascosto: l'esistenza quotidiana dei detenuti. Uomini e donne che si sono fatti ritrarre dal fotografo Francesco Cocco e che parlano, attraverso questi scatti.
Le immagini, raccolte nella mostra "Prisons" promossa dal Comune di Roma in collaborazione con "Contrasto", sono visibili a Roma alla sala Santa Rita fino alla fine di marzo.
[...]
Sono immagini scarne, a tratti dolorose e impietose, che non cercano abbellimenti. Le fotografie, in Bianco e nero, sono state realizzate tra il 2001 e il 2005 nelle carceri di Milano, Modena, Palermo, Bologna, Trani, Roma, Messina, Prato, Torino, Cagliari, Alghero, Pisa e sono state raccolte nell'omonimo volume "Prisons" pubblicato in Italia da Logos nel 2006, con testi di Adriano Sofri e Renata Ferri.
Scatti che testimoniano un mondo a parte, di cui conosciamo l'esistenza ma che non vediamo, e di cui raramente ci occupiamo.
E' uno specchio duro e oscuro, ma vale la pena di affrontarlo. Anche perché in queste immagini c'è, come nella migliore fotografia, tanto racconto. "Alla fine del libro – scrive Renata Ferri – vorremmo saperne di più, vorremmo conoscere ogni storia dietro ogni volto, vorremmo sognare un lieto fine per ognuno di loro". Come nelle favole.
"5 minutes in my shoes - Piccole storie di rifugiati" è una mostra di Elena Marioni composta da 60 fotografie in Bianco e nero, suddivise in sezioni che documentano l'arrivo dei richiedenti asilo in Italia e le loro prime attività. Il Comune di Bologna ospita l'esposizione, allestita nel cortine di Palazzo d'Accursio, nell'ambito del fuori programma del Festival Human Rights Nights organizzato dalla Cineteca di Bologna. La mostra è visitabile dal 14 aprile al 1° maggio, tutti i giorni dalle 8 alle 19. Le immagini di Elena Marioni sono un reportage realizzato in diretto stile fotogiornalistico. Il suo Bianco e nero, però, risulta davvero efficace solo a tratti, mentre in alcune sezioni le immagini sono prive della forza necessaria a comunicare il lato emotivo dell'essere un rifugiato appena sbarcato in un paese straniero. Come spesso accade nei progetti con una forte necessità educational, l'editing della mostra ha privilegiato l'aspetto documentativo sopra quello espressivo o artistico della selezione.
Vale comunque la pena dare un'occhiata alla mostra, malgrado l'illuminazione decisamente imperfetta dovuta alla luce naturale del cortile di Palazzo d'Accursio che mal si distribuisce fra le pannellature. In particolare sono da notare alcune immagini con i gesti della identificazione dopo lo sbarco, e alcuni particolari delle stanze dei rifugiati.
Se si fossero eliminate dalla selezione per la mostra circa 20/25 immagini si sarebbe forse perso parte del valore documentativo, ma si sarebbe guadagnato enormemente in impatto emotivo dell'esposizione, ed in espressività. Dal mio punto di vista è un piccolo peccato.
La fotografia di Edward Burtynsky è tutta rivolta a documentare la distruzione dell'ambiente naturale per il nostro egoistico benessere immediato, o, come dice lui "La nostra dipendenza dalla natura per fornirci dei materiali di consumo e la contemporanea peoccupazione per la salute del pianeta ci collocano di fronta ad una scomoda contraddizione".
Bruce Haley produce fotogiornalismo già da un po' di tempo. Guardando il suo progetto Disfigured Landscapes, è interessante notare come la percezione degli stessi paesaggi in via di distruzione (fotografati in Bianco e nero) sia piuttosto diversa da quella di Edward Burtynsky (che usa pellicola a colori):
Il bello dei portali video è che, sull'onda della loro novità, in barba a tutte le leggi che tutelano il diritto di copia e di sfruttamento delle produzioni multimediali, molti appassionati digitalizzano e ripubblicano materiale d'annata altrimenti perduto. Un esempio è il documentario di John Szarkowski su Garry Winogrand, autore della fondamentale raccolta di street photographyThe Man in the Crowd: The Uneasy Streets of Garry Winogrand, che rappresenta la summa della sua produzione, pubblicata postuma nel 1998.
Questo è il video notato su 2point8:
Sempre su 2point8 è anche presentata la trascrizione delle interviste, dalle quali cito alcuni passaggi significativi della valenza estetica del lavoro di Winogrand, e del suo "pensiero artistico" dal valore concettualmente davvero molto relativo.
I am surprised that my prints sell. They’re not pretty, they’re not those kind of pictures that people easily put on their walls, they’re not that window onto a nice landscape or something. They aren’t.
I don’t have pictures in my head, you know. Look, I am stuck with my own psychology. With my own, uh, with me. So I’m sure that there’s some kind of thread, whatever, but I don’t have pictures in my head.
Le fotografie del giovane bolognese Lorenzo Pondrelli, premiato vincitore nella categoria Fotografia di Reportage del Festival ICEBERG 2007, mostrano le bellezze dell'India e delle sue culture usando un linguaggio espressivo che va oltre il consueto stile documentaristico "alla National Geographic". Il filo conduttore è l’unione dei tre vincoli formali tempo, spazio e tono, il raccogliere momenti in cui lo spazio e il tempo sembrano unirsi al colore per mostrare la bellezza della realtà. Così la duplicità delle immagini, che rappresentano soggetti catturati nello stesso momento o lo stesso soggetto visto da differenti punti di ripresa, cerca di ricreare sensazioni che condividevano lo stesso spazio: ogni opera infatti è composta da due fotografie unite da un inevitabile legame formale di spazi, momenti e toni.
Magenta - PHOTO LORENZO PONDRELLI
Davvero indovinato e ben realizzato, il comunicativo progetto di Lorenzo Pondrelli merita il primo premio ricevuto, e le prospettive future che, con esso, sicuramente si aprono per il suo giovane autore. Da sole le sette opere presentate al concorso per questo progetto (ognuna composta di due fotografie impaginate graficamente con il tono di riferimento) valgono la visita alla galleria Tamatetedi Via Santo Stefano 17 a Bologna, ma pregievoli sono anche alcune altre opere fotografiche e materiche in concorso al festival iceberg 2007 e presentate in questi spazi di FMR/Arté.
Lorenzo Pondrelli alla galleria Tamatete per il Festival Iceberg 2007 - PHOTO DAVIDE GAZZOTTI
Segue un'estratto di un minuto dall'intervista che ho realizzato.
Rimanendo nell'ambito della Fotografia di Reportage presentata nello stesso spazio espositivo, di stile diverso è il reportage "Nova Craiova" di Filippo Massellani realizzato fra i container di un accampamento di rom immigrati a Bologna, e segnalato dalla giuria. Un classico reportage sociale, ben realizzato con un'ottimo Bianco e nero, a cui non mancano le necessarie immagini di forte impatto, e pregievole coerenza formale.
PHOTO FILIPPO MASSELLINI
Potenzialmente promettente, ma di realizzazione formalmente tutt'altro che ineccepibile, il progetto "Presenze" di Gemis Luciani, ultimo autore segnalato nella sezione Fotografia di Reportage. Tema più difficile e abusato, a cui è fatalmente mancato, soprattutto nella quarta immagine della serie, il necessario impatto visivo e coerenza formale con le altre immagini.
Ashes and Snow, ceneri e neve, sono i poetici componenti del più maestoso progetto artistico che la fotografia contemporanea ricordi. Gregory Colbert, nato in Canada 47 anni fa, ma davvero cittadino del mondo, è autore di un progetto che indaga la sensibilità poetica degli animali nel loro habitat naturale nell'interazione con gli esseri umani. Non più visti unicamente come appartenenti al genere umano, gli uomini di Colbert sono animali in armonia con la natura e col mondo animale. Ashes and Snow è un grandioso progetto in progress, realizzato nel corso di più di un decennio grazie anche al generoso contributo di una multinazione svizzera che utilizza il lavoro di Colbert come strumento di marketing alternativo. Nel museo itinerante, appositamente allestito per essere trasferibile in diversi angoli del mondo (Nomadic Museum), vengono esposte grandiose realizzazioni fotografiche stampate in enorme formato, tre filmati girati in 35mm, alcune installazioni ed infine un romanzo. Con intima pazienza e forte dedizione alla natura espressiva e artistica degli animali, Gregory Colbert è riuscito a carpire, ed a trasmettere, una straordinaria ed inesplorata interazione fra gli esseri viventi.
In una delle rarissime sue apparizioni pubbliche, Gregory Colbert ha presentato alla TED conference2006 un sensazione filmato tratto proprio da Ashes and Snow. Nella presentazione, Colbert annuncia anche la sua nuova utopica iniziativa Animal Copyright Foundation, che si prefigge di raccogliere royalties dalle compagnie che sfruttano le immagini della natura nelle loro campagne pubblicitarie... immagino però che sarà dura costringere il mondo del business a pagare, seppur poco, quando ciò non è previsto per legge. Questo filmato è assolutamente da non perdere.
(Registrato nel Febbraio 2006 a Monterey, California. Duration: 18:42)
Il mio unico rammarico, ivece, è proprio essermi perso, ormai alcuni anni or sono, la tappa veneziana di Ashes and Snow allestita in un Arsenale trasformato per l'occasione in un Nomadic Museum molto speciale.
Impossibile non rimanere colpiti da queste drammatiche immagini in banco e nero di un corpo umano e della sua sofferenza. Dopo aver notato come ultimamente certe tematiche sono cavalcate dalle multinazionali per continuare comunque a promuovere creme oppure abbigliamento sportivo come strumenti per abbellire i corpi, fingendo impegno contro la spettacolarizzazione della bellezza dei corpi e la chirurgia plastica, ecco come descrive il suo progetto Thaniel Lee: "In questo mondo di spettacolo e chirurgia plastica, di spettacoli sulla chirurgia plastica, di programmi tv che selezionano finte modelle, di irreali reality show, io cerco di mostrare un corpo che non può cambiare, un corpo che nessun complicato intervento chirurgico al mondo potrà mai trasformare in un super modello, un corpo che non viene mostrato sulle riviste più lette, o su MTV.[...] Ho scelto di documentare questo corpo attraverso l’obiettivo della macchina fotografica: il corpo che ho scelto di raccontare è il mio. Sono nato con una patologia chiamata Artrogriposi: questa condizione mi lascia un uso limitato delle braccia, delle gambe e delle dita. Undici operazioni chirurgiche mi hanno procurato interessanti cicatrici e atrettante storie interessanti. Ho cominciato nel 2000 a documentare il mio corpo, e le innumerevoli diverse forme in esso contenute... Spero che il mio lavoro faccia in modo che la gente guardi al proprio corpo mettendo in discussione il concetto di bellezza che pervade la nostra cultura ossessionata dai corpi."
Ogni scatto di Thaniel Lee è una performance unica, dove le forme di un corpo esprimono contemporaneamente spudorata sofferenza e incredibile forza vitale.
«Vorrei solo rendere "giustizia" a una generazione, quella di noi nati agli inizi degli anni '80 (o qualche anno più o anno meno).
Quelli che vedono la casa acquistata allora dai nostri genitori valere oggi 20 o 30 volte tanto, e che pagheranno la propria fino ai 50 anni. Noi non abbiamo fatto la Guerra, né abbiamo visto lo sbarco sulla luna, non abbiamo vissuto gli anni di piombo, né abbiamo votato il referendum per l'aborto e la nostra memoria storica comincia coi Mondiali di Italia '90. Per non aver vissuto direttamente il '68 ci dicono che non abbiamo ideali, mentre ne sappiamo di politica più di quantocredono e più di quanto sapranno mai i nostri fratelli minori e discendenti. Babbo Natale non sempre ci portava ci che chiedevamo, per ci nonostante quelli che sono venuti dopo di noi sì che hanno avuto tutto, e nessuno glielo dice. Siamo l'ultima generazione che ha imparato a giocare con le biglie, a saltare la corda, a giocare a lupo, a un-due-tre-stella, e allo stesso tempo i primi ad aver giocato coi videogiochi, ad essere andati ai parchi di divertimento o aver visto i cartoni animati a colori. Abbiamo indossato pantaloni a campana, a sigaretta, a zampa di elefante e con la cucitura storta; la nostra prima tuta è stata blu con bande bianche sulle maniche e le nostre prime scarpe da ginnastica di marca le abbiamo avute dopo i 10 anni. E il bomber? Le All star? Le superga?Le clarks? Andavamo a scuola quando il 1 novembre era il giorno dei Santi e non Halloween, quando ancora si veniva bocciati, siamo stai gli ultimi a fare la Maturità in sessantesimi e ad iscriversi alle lauree quadriennali (quelle che valgono veramente) e a finirle in sei. Alcuni sono anche i pionieri del 3+2... Siamo stati etichettati come Generazione X e abbiamo dovuto sorbirci Sentieri e i Visitors, Twin Peaks e Beverly Hills ti piacquero per Candy-Candy, ci siamo innamorate dei fratelli di Georgie, abbiamo riso con Spank, ballato con Heather Parisi, cantato con Cristina D'Avena e imparato la mitologia greca con Pollon. Siamo una generazione che ha visto Maradona fare campagne contro la droga. Cresciuti col mito di Van Basten e che hanno visto San Siro cambiare per Italia'90. Siamo i primi ad essere entrati nel mondo del lavoro come Co.Co.Co. e quelli per cui non gli costa niente licenziarci. Ci ricordano sempre fatti accaduti prima che nascessimo, come se non avessimo vissuto nessun avvenimento storico. Abbiamo imparato che cos'è il terrorismo, abbiamo visto cadere il muro di Berlino, e Clinton avere relazioni improprie con la segretaria nella Stanza Ovale; siamo state le più giovani vittime di Cernobyl. Abbiamo imparato a programmare un videoregistratore prima di chiunque altro, abbiamo giocato a Pac-Man, odiamo Bill Gates e credevamo che internet sarebbe stato un mondo libero. Abbiamo visto prima di chiunque altro il compact disc, detto anche cd room ora semplice cd. Gli ultimi ad aver usato e posseduto un mangianastri. Siamo la generazione di Bim Bum Bam, di Clementina-e-il-Piccolo-Mugnaio-Bianco e del Drive-in. Siamo la generazione che and al cinema a vedere i film di Bud Kamen, e gli ultimi a usare dei gettoni del telefono. Ci siamo emozionati con Superman, ET o Alla Ricerca dell'Arca Perduta. Bevevamo il Billy e mangiavamo le Big Bubble, ma neanche le Hubba Bubba erano male; al supermercato le cassiere ci davano le caramelline di zucchero come resto. Siamo la generazione di Crystal Ball ("con Crystal Ball ci puoi giocare..."), delle sorprese del Mulino Bianco, dei mattoncini Lego a forma di mattoncino, dei Puffi, i Volutrons, Magnum P.I., Holly e Benji, Mimì Ayuara, l'Incredibile Hulk, Poochie, Yattaman, Iridella, He-Man, Lamù, Creamy, Kiss Me Licia, i Barbapapà, i Mini-Pony, le Micro-Machine, Big Jim e la casa di Barbie di cartone ma con l'ascensore. La generazione che ancora si chiede se Mila e Shiro alla fine vanno insieme. La generazione che non ricorda l'Italia Mondiale '82, e che ci viene un riso smorzato quando ci vogliono dare a bere che l'Italia di quest'anno è la favorita... L'ultima generazione a vedere il proprio padre caricare il portapacchi della macchina all'inverosimile per andare in vacanza 15 giorni. L'ultima generazione degli spinelli, delle canne... Guardandoci indietro è difficile credere che siamo ancora vivi: viaggiavamo in macchina senza cinture, senza seggiolini speciali e senza air-bag; facevamo viaggi di 10-12 ore. Non avevamo porte con protezioni, armadi o flaconi di medicinali con chiusure a prova di bambino. Andavamo in bicicletta senza casco né protezioni per le ginocchia o i gomiti. Le altalene erano di ferro con gli spigoli vivi e il gioco delle penitenze era bestiale. Non c'erano i cellulari. Andavamo a scuola carichi di libri e quaderni, tutti infilati in una cartella che raramente aveva gli spallacci imbottiti, e tanto meno le rotelle!! Mangiavamo dolci e bevevamo bibite, ma non eravamo obesi. Al limite uno era grasso e fine. Ci attaccavamo alla stessa bottiglia per bere e nessuno si è mai infettato. Non avevamo Playstation, Nintendo 64, videogiochi, 99 canali televisivi, dolby-surround, cellulari, computer e Internet, per ce la spassavamo tirandoci gavettoni e rotolandoci per terra tirando su di tutto; bevevamo l'acqua direttamente dalle fontane dei parchi, acqua non imbottigliata, che bevono anche i cani! E le ragazze si intortavano inseguendole per toccar loro il sedere e giocando al gioco della bottiglia o a quello della verità, non in una chat dicendo :P Abbiamo avuto libertà, fallimenti, successi e responsabilità e abbiamo imparato a crescere con tutto ciò. Congratulazioni a tutti coloro, che come me, hanno avuto la fortuna di crescere come bambini.»
Rendiamo giustizia ad una generazione Alessandro Marcias buncone@tiscali.it
Era il 1936, e la fotografa amercana Dorothea Lange stava lavorando per uno dei progetti voluti dall'amministrazione di Franklin Delano Roosvelt al fine di verificare e documentare lo stato dell'economia rurale di un paese duramente provato dalla crisi economica seguito al crollo del 29.
In questo contesto la Lange scattò la sua fotografia più famosa e più sopravvalutata. D'altra parte, con questi progetti si stava segnando la nascita del fotoreportage, o fotografia documentaristica che dir si voglia... eravamo giustappunto nel 1936, e finalmente erano disponibili apparecchi trasportabili: era la prima volta che la macchina fotografica era vista come strumento di documentazione di importante valore sociale e politico, esattamente come affermato oltre 70 anni più tardi da James Natchwey nel suo discorso di accettazione del TED Prize 2007. Quello che forse passerà alla storia come l'orazione funebre della documentary photography.
Sono quasi certo che l'avete vista prima... si intitola Migrant Mother ed è una delle più famose fotografie americane. Quando scattò questa foto, Dorothea Lange si dimenticò di annotare il nome della donna (o altri dettagli utili al suo progetto di documentazione) così la sua identità rimase anonima anche se la foto si apprestava a diventare un simbolo della Grande Depressione.
"I wish she hadn't taken my picture. I can't get a penny out of it. [Lange] didn't ask my name. She said she wouldn't sell the pictures. She said she'd send me a copy. She never did."
Oltre a non aver registrato il nome della donna, la Lange ha anche sbagliato un'altra cosa: la Thompson e la sua famiglia non erano affatto i tipici migranti della Grande Depressione, ma erano stanziali in California da più di 10 anni. Come tutte le fotografie, Migrant Mother non è nè realtà nè finzione, piuttosto qualcosa di intermedio...
La ricerca musicale che ho portato avanti in questi anni ha coinciso con il “togliere”: la scarnificata espressività delle sculture di Giacometti o dai versi di Ungaretti è un linguaggio in controtendenza in un'epoca di ridondanze.
Avviso Questo blog non rappresenta una testata di nessun tipo, tanto meno giornalistica, in quanto viene aggiornato in modo scostante e discontinuo, come il suo autore.
Non può pertanto considerarsi un prodotto editoriale (e non potrebbe neanche fosse periodico) ai sensi della legge n.62 del 7.03.2001.
Watching Mostly French and Danish productions, all Stanley Kubrick's filmography, Wim Wenders, Woody Allen, Roman Polanski, Godard, Truffaut, Jim Jarmusch, Ken Loach, Kieslowsky...